COCO CHANEL DICEVA “PRIMA DI USCIRE, GUARDATI ALLO SPECCHIO E LEVATI QUALCOSA” .. IO AGGIUNGO “PRIMA DI USCIRE, GUARDATI ALLO SPECCHIO E GUARDATI BENE” • La Voce di Maruggio
COCO CHANEL DICEVA “PRIMA DI USCIRE, GUARDATI ALLO SPECCHIO E LEVATI QUALCOSA” .. IO AGGIUNGO “PRIMA DI USCIRE, GUARDATI ALLO SPECCHIO E GUARDATI BENE”
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ivo a Roma e per sopravvivere alla giungla del traffico cittadino trascorro molto tempo sui mezzi pubblici.
Mi piace osservare le persone. Vi è mai capitato? Dietro ogni persona c’è un mondo, e se sei un bravo osservatore, riesci a coglierne le mille sfumature. E anche gli orrori. E quindi mi sembra doveroso condividere con voi questa riflessione. Avere un guardaroba firmato non basta, perché sono i dettagli a fare la differenza e, se trascurati, sono capaci di rovinare qualsiasi look.
Lo smalto sbeccato. O steso come farebbe una bambina di 6 anni. Oppure su unghie in stadio avanzato di ricrescita. Le mani sono un biglietto da visita e devono essere sempre curate.
Il trucco sciolto. Il mascara e la matita che a fine giornata colano inesorabilmente sotto gli occhi tanto da farvi sembrare dei piccoli panda sorpresi sotto la pioggia. No. Non va assolutamente bene. Ricordatevi di usare sempre make – up a lunga tenuta, e di tenere in borsa specchietto, cipria e correttore per tamponare le possibili sbavature. E poi vi prego, quando la mattina mettete il mascara e vi accorgete che vi siete date una pennellata sulla palpebra, pulite subito!!
Elastici per capelli come braccialetti. A volte non ve ne accorgete nemmeno, ma tenete al polso gli elastici per capelli, per giunta in colori diversi, come fossero bracciali di Cartier. Bè, ti svelo un segreto: non lo sono. Nascondeteli in borsa.
I capelli unti. A meno che non stiate facendo qualche trattamento anticaduta – che pure non giustifica l’effetto frittura in testa – i capelli devono essere sempre in ordine. In ordine non vuol dire che dovete andare sempre dal parrucchiere. Non è necessario. Ma devono essere puliti! Se dopo due giorni dall’ultimo shampoo vi rendete conto di non avere tempo per rilavarli, optate per un raccolto! Tanto di tendenza come la coda di cavallo o lo chignon basso, glam e che vi conferisce quell’allure di eleganza raffinata tutto il giorno.
Le calze smagliate. Vade retro!! Io non uso i collant per scelta “etica della moda” tutta mia, nemmeno d’inverno, le trovo poco sexy – meglio le autoreggenti – e quelle rare volte che le ho indossate mi sentivo incastrata in una camicia di forza. Ma se proprio non potete farne a meno, fate attenzione!! Il buchino all’alluce che “tanto non sale” .. salirà ..salirà.. fino a quando sarà un solco lungo e visibile che darà un bel calcio al vostro tubino nero di Dolce&Gabbana.
Saltare un passante. Orrore! Se indossi la cintura con i jeans o i pantaloni, assicurati di non saltare nemmeno un passante: una piccola dimenticanza che denota poca cura nel vestire.
Peli visibili. Se hai un cane o un gatto, sai bene che perde i peli. Ebbene amiche, i peli si vedono. Spazzola adesiva, sempre.
Scarpe troppo grandi. Indice sicuro di sciatteria, le scarpe troppo grandi – soprattutto se décolleté o sandali – si notano subito e ti fanno sembrare una che le ha chiesto in prestito alla sorella. Non indossarle mai!
Il minestrone di accessori. Sei una che nel dubbio finisce per indossare 10 accessori contemporaneamente bracciali, borse, cappelli e collane? Malissimo. Chanel diceva “prima di uscire, guardati allo specchio e levati qualcosa” ecco, ricordiamocelo, come un mantra!
E poi amiche, essere ordinate nei dettagli fa bene a noi stesse, senza dimenticare che l’uomo dei nostri sogni ..lo possiamo incontrare anche in metropolitana!
Palma Agosta
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‘Borat – Seguito di film cinema’: il genio di Sacha Baron Cohen torna a stenderci tutti
Dunque, il film parla di… Ma è importante di che parla? È Borat! E il titolo completo di questo sequel, Borat – Seguito di film cinema. Consegna di portentosa bustarella a regime americano per beneficio di fu gloriosa nazione di Kazakistan (disponibile su Amazon Prime Video), dice già tutto da solo. Sono passati quattordici anni da quando Borat Sagdiyev (Sacha Baron Cohen) è sbarcato negli States e ha sputtanato i valori americani, facendo a pezzi cimeli dei Confederati da 400 dollari, portando una busta piena di cacca in un ristorante stellato e gridando, in un negozio di armi da fuoco, «Eddai, fammi contento, ebreo!», alla maniera del suo eroe, l’ispettore Callaghan di Clint Eastwood.
Era il 2006… quante vite fa? Nel clima politico e culturale di oggi, un’eternità. E anche nella vita dello stesso Borat Sagdiyev. Dopo essere diventato lo zimbello del suo Paese natale, il Kazakistan, in questo nuovo film – una cosa che nessuno aveva previsto, ma che in questo preciso momento sembra assolutamente necessaria – fa di tutto per rimediare. La sua missione – non ha nessuna scelta se non quella di accettarla – è rimettere la sua nazione sullo scacchiere internazionale facendo ammenda di fronte agli Stati Uniti. E portando un “regalino sexy” a un membro dell’amministrazione Trump, nella fattispecie il “Vice Prenditore-Di-Donne-Per-La-Passera” Mike Pence. In teoria, quel regalino sarebbe dovuto essere una scimmietta sexy. Diciamo solo che il primate rimane vittima delle complicazioni di un lungo viaggio intercontinentale. Non è dunque un sollievo per tutti che Borat abbia una giovane figlia “che sta per diventare bellissima”? Cioè il perfetto specchietto per le allodole agli occhi di un Paese che, come chiunque potrebbe presumere, è però troppo intelligente per cascarci.
Ecco, diciamo che le cose sono un po’ cambiate. Per prima cosa, il Borat originale è stato un successo internazionale, il che vuol dire che, nel 2020, il personaggio viene riconosciuto per strada; cosa che succede allo stesso Cohen, un “ex pensionato” come Jay-Z e Steven Soderbergh che ha poi deciso di tornare sui suoi passi. Non solo è tornato, ma è meglio di prima. Al posto del suo vecchio compagno di viaggio Azamat, troviamo sua figlia Tutar Sagdiyev (Maria Bakalova), che però preferisce farsi chiamare Sandra Jessica Parker Sagdiyev (grazie di cuore). E poi vengono le peripezie, le battute, i disastri lungo la strada. Borat 2 è modellato come il precedente, il che fa sembrare l’originale ancora più profetico: se lo facessero uscire oggi, sembrerebbe ancora un affresco della nostra squallidissima epoca. La magia prodotta da Cohen, dalla bravissima Bakalova, dal regista Jason Woliner e da tutta la squadra di sceneggiatori è spingere le premesse del film ancora più dentro il tempo presente.
Quanto è contemporaneo il nuovo Borat? Una delle gag-chiave ha luogo alla convention della Conservative Political Action Conference, dove il vicepresidente Mike Pence dice che al momento negli Stati Uniti sono stati registrati «15 casi di coronavirus». Nel corso del film, vediamo alcune persone indossare la mascherina e rispettare la distanza di sicurezza, e altre invece votate a un completo negazionismo del Covid-19. Scegliete voi da che parte stare. Abbiamo dunque a che fare con la storia recente, anzi con la storia corrente. Ci sono Pence e Rudy Giuliani, su cui torneremo più avanti; e la star di Instagram Macey Chanel, che dà lezioni su come essere una perfetta “sugar baby”. C’è la dimostrazione plausibile su come chiunque oggi riuscirebbe a infiltrarsi facilmente dentro l’amministrazione Trump e provocare il caos. E l’ennesima prova del fatto che Cohen sia uno dei pochissimi attori comici viventi capaci di gestire una roba del genere, e uno dei pochissimi in grado di farci domandare come diavolo ci riescano.
Ma è anche a noi a stessi che dobbiamo darci una pacca sulla spalla (o forse no). Perché Borat potrebbe esistere senza di noi? Nel primo film, a stupire era, per esempio, il candore con cui questo “straniero” chiedeva a un venditore di armi il fucile perfetto per uccidere un ebreo – e la franchezza con cui l’uomo gli rispondeva. Era il gruppo di suprematisti bianchi che diceva che le minoranze avevano tutto il potere in questo Paese, e allora sapete cosa? C’è bisogno dello schiavismo, eccome! Nel nuovo Borat, quelle gag sono evocate, e persino surclassate, dalle nuove: un make-up stylist consiglia alla coppia di protagonisti la tinta che si addice di più a una famiglia razzista; la commessa di un negozio d’abbigliamento mostra un vestito con sopra scritto “No vuol dire sì; un chirurgo plastico è ben felice di far vedere il profilo del perfetto naso ebreo. Tutte queste gag sono ovviamente eccessive. E sono esattamente quello che devono essere: il sottotesto è il testo, anche nel momento in cui Borat chiede che su una torta venga scritto “Non verremo rimpiazzati dagli ebrei”. Quanto scommettete sul fatto che nessuno, in quella pasticceria, avrà niente da obiettare? E quanto sul pastore antiabortista che, quando viene a sapere che la figlia di Borat è incinta del figlio dello stesso Borat, non condanna l’accaduto? Anzi, invita loro (e noi) a non fare la scelta sbagliata. Perché i Bravi Cristiani Americani non giudicano.
È tutto un tabù. Tutto sembra impossibile. Nulla può essere davvero spiegato. Borat è un personaggio grottesco: è tratteggiato secondo tutti i cliché esotici, è peloso, si lascia andare a battute bassissime, gira con una bustina di peli pubici in tasca. Ma la caricatura si rispecchia paradossalmente nei valori più profondi dell’America: il suo livello di ignoranza è quello che rende tutti noi sospettosi rispetto a qualsiasi cosa; e il suo livello di affettazione e falsa gentilezza trova radici in quella stessa ignoranza. Il fatto è che siamo nel 2020. Il nostro è un mondo post-Borat: sono nati i social network, le telecamere sono ovunque, nelle nostre vene scorre il risultato di decenni di reality-tv. È anche un mondo in cui, sul versante dell’ignoranza, le teorie cospirazioniste la fanno da padrone. Spereremmo tutti di essere diventati un po’ più saggi con gli anni: e invece.
Cohen è un maestro – anzi, un genio – d’ironia. Fa un’impennata sul fronte del negazionismo dell’Olocausto che, nonostante tutto quello che è accaduto dal 2006 a oggi, fa ancora ridere moltissimo per i suoi affondi satirici. Il film finisce e tu vorresti spoilerare tutto (la scena della sinagoga! E quella al gabinetto! E i porno sull’iPhone!), ma noi non lo faremo. Quello che possiamo dire è riassumibile in: Covid, Jeffrey Epstein, #pizzagate e teorie correlate («Hillary Clinton beve sangue di bambini?»). Un intrico psicotico di battute e pasticci politici impenetrabile quanto un ammasso di prolunghe, su cui non possiamo fare altro che inciampare. La cosa migliore di Borat 2 non è tanto l’attacco all’amministrazione Trump o, per essere più precisi, all’America sotto il governo di Trump. La cosa più bella è la capacità di Cohen e della sua squadra di orchestrare il tutto così fluidamente, anche se – come sempre – improbabilmente. Quindi, alla fine di Borat 2, la domanda non è più: come diavolo è riuscito Cohen a fare tutto questo? Ma: com’è riuscito a sopravvivere a tutto questo? A non farsi prendere a botte da nessuno?
O magari qualcuno l’ha fatto, solo che noi non lo vediamo. Di sicuro, ora che il film è uscito, qualcuno che vorrebbe picchiarlo c’è. L’immagine di Giuliani che si mette le mani nei pantaloni davanti a una ragazza è già diventata virale. Ma, trattandosi di Borat, quel fotogramma non è l’unica cosa rilevante della scena. I pugni di Cohen e della sua creatura van giù pesante, e ancora più pesante, e di più ancora, finché il corpo dell’America non è malmenato a dovere. Sono i numeri da funambolo a rendere il film così clamoroso; le situazioni pericolosissime in cui Cohen si butta in modo del tutto dissennato. È la prodigiosa efficacia di ogni suo colpo. E la gag finale, quella che sintetizza tutte le altre? Un colpo che mette tutti al tappeto. Nessuno di noi spettatori avrebbe potuto prevederla. Ma il senso del finale sta proprio in questo: avremmo dovuto, invece, prevedere tutto.
Da Rolling Stone USA
KAISER KARL LAGERFELD, OMAGGIO ALL’IMPERATORE
Increduli sulla morte di kaiser Karl Lagerfeld e in onore di un potente visionario della moda contemporanea
Con la morte di kaiser Karl Lagerfeld la moda, oggi, sente di essere impotente. L’istrionico stilista tedesco lascia un vuoto incolmabile.
Ci ha lasciati non solo un creatore di meraviglie ma anche un uomo colto, un persuasore di tendenze. Il vero visionario della moda contemporanea.
Lagerfeld debutta in Chanel nel 1983 tra lo scetticismo generale.
Vogue France, scrisse: “Karl Laferfeld crea per Chanel! Questa novità ha suscitato la curiosità di tutti. Si voleva vedere, sapere e si è visto … una collezione nello spirito di Coco Chanel, come se Karl si fosse divertito a fare un esercizio di stile; a giocare con dei temi dati, a mettere l’immagine di Chanel à l’heure de jour“.
Abito in seta abbinato a gioielli vistosi. Collezione Chanel 1983
La collezione discussa fu la Haute Couture, la stessa che esibì gli iconici fourreau di crêpe di seta nero con scollatura sulla schiena e un tailleur dalla giacca dritta abbinato a camicia con papillon nero.
Per quel defilé si ispirò alle immagini d’archivio della Maison francese focalizzando l’attenzione sull’emancipata Coco.
Nel 1984 Lagerfeld scrive: “Chanel è un look, un mood, una concezione che io devo portare in un altro decennio. Questo look ha già attraversato diversi purgatori ai tempi di Chanel. Ma è abbastanza forte da adattarsi a tutte le epoche. Siamo nel periodo di una nuova infatuazione per Chanel. Delle ragazze di diciassette anni e delle donne di trenta vengono nella boutique per comprarsi un bijou o per vestirsi con quel look. Dunque Chanel corrisponde a qualcosa. Oggi si assiste a un ritorno al classico, o all’idea che ci se ne fa. La follia degli anni Settanta (ecologia, folk …) è passata. Si ritorna di colpo alle cose più civilizzate, così c’è spazio per Chanel. Se però si proponessero alle donne di oggi il piccolo tailluer stretto dell’epoca e tutto quello che Chanel raccomandava, non li vorrebbero assolutamente: la silhouette è cambiata, la moda è cambiata. La concezione Chanel può adattarsi a questi cambiamenti“.
La rivoluzione di kaiser Karl Lagerfeld in Chanel
“L’immagine di Chanel – scrisse – non deve essere quella di una vecchia signora che dà lezioni di eleganza. Bisogna considerare l’insieme della sua vita e della sua carriera, entrambe strettamente legate, per apprezzare il suo genio“.
Lo stilista tedesco studiò tutto di Mademoiselle mettendo in discussione anche alcune sue aneddoti a lei attribuiti.
“Non fu la prima a tagliarsi i capelli (fu l’attrice Eva Lavallière), ma non è grave. L’dea dei bijoux – veri o falsi – per il giorno non era sua, era di Misia Sert, ma non è così importante. Persino le petit robe noir non è solo Chanel, è anche Madame Vionnet“.
Coco: “espressione della sua sete di potere e di dominio nel mondo della moda”
Lagerfeld non riservò sempre parole di elogio per Gabrielle.
Lagerfeld e il compagno Jacques de Bascher
Quando giudicò le ultime collezioni della sarta francese usò parole dure, scontrose: “Alla fine degli anni Sessanta trasformando i propri gusti personali in un intollerante e inflessibile vangelo dell’eleganza, fece diventare se stessa fuori moda. L’audacia e il coraggio di respingere il cambiamento furono espressione della sua sete di potere e di dominio nel mondo della moda.”
Questo era Karl Lagerfeld: il bianco e il nero. Assenza di sfumature refrattarie nel loro essere reali.
La morte del kaiser ha colto tutti impreparati sebbene l’assenza all’ultima collezione Haute Couture della griffe avesse lasciato qualche dubbio sul suo stato di salute.
Un uomo debole nelle carni, prosaico. Combattivo, evolutivo. La memoria del kaiser non è annebbiata da aloni indecifrati di codici inscritti verbalmente. Tutto è visibile nei nostri occhi dentro un limbo, che è un archivio di schizzi e immagini. Pellicole e collezioni.
Un omaggio alla sua autentica verve ispirata da amori – Jacques de Basques fu il compagno di una vita – e dalla venerazione completa per il design.
Kaiser Karl Lagerfeld e Fendi, un sodalizio lungo decenni
Cinque decenni di fortunato successo. Era il 1965 quando Anna, Franca, Paola, Carla e Alda Fendi lo accolgono nel loro atelier.
Con la maison romana stringe una delle collaborazioni più longeve delle moda realizzando pellicce di eccelsa creatività.
Karl e Silvia Venturini Fendi durante la sfilata in Fontana di Trevi a Roma
Oggi la griffe lo ricorda con tanto affetto.
“Lavorare con lui da FENDI mi ha permesso di comprendere il segreto del suo continuo rinnovarsi. Ammiro profondamente la sua immensa cultura, la capacità di reinventarsi di continuo, di ispirarsi alle diverse arti, di non trascurare nessuno stile, insieme al suo costante rifiuto di guardare al suo passato e di osservare le sue creazioni attraverso uno specchietto retrovisore. Era instancabile e il suo essere esigente non lo ha mai abbandonato. Al termine di ogni sfilata le sue prime parole erano sempre “And now number next!”. Ci lascia un’eredità immensa ed un’inesauribile fonte di ispirazione. Mancherà immensamente a me e a tutte le persone di FENDI”, Serge Brunschwig, Presidente & CEO di FENDI.
“Sono profondamente addolorata perché oggi abbiamo perso un uomo unico e un designer senza uguali, che ha dato così tanto a Fendi e a me stessa. Ero solo una bambina quando ho visto Karl per la prima volta. Il nostro rapporto era molto speciale, fondato su un profondo e genuino affetto. Tra noi c’era un grande apprezzamento reciproco ed un rispetto infinito. Karl Lagerfeld è stato il mio mentore e punto di riferimento. Bastava uno sguardo per comprendersi l’un l’altro. Per me e per FENDI, il genio creativo di Karl Lagerfeld è stato e sarà sempre la luce guida che ha plasmato il DNA della Maison. Mi mancherà moltissimo e porterò sempre con me i ricordi dei giorni passati insieme”, Silvia Venturini Fendi, Direttore Creativo Uomo, Bambino e Accessori di FENDI.
Buon viaggio, Karl.
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