America’s Cup, i precedenti di Luna Rossa nelle finali di Prada Cup/Louis Vuitton Cup
C’è grande attesa ad Auckland in vista della finale di Prada Cup 2021, prevista a partire da sabato 13 febbraio con le prime due regate della serie tra Luna Rossa Prada Pirelli ed Ineos Team UK. Italiani e britannici si affronteranno in un confronto al meglio delle 13 sfide (chi arriva prima a 7 punti, passa il turno) con in palio il successo nelle Challenger Series e soprattutto la possibilità di affrontare il defender Emirates Team New Zealand dal 6 marzo nel Match dell’America’s Cup 2021. Per Luna Rossa si tratta della quarta presenza complessiva nell’atto conclusivo del torneo di selezione degli sfidanti (denominato Louis Vuitton Cup fino alla scorsa edizione).
L’imbarcazione tricolore del Patron Patrizio Bertelli è infatti già arrivata a questo punto della manifestazione in altre tre occasioni (2000, 2007 e 2013), portando a casa un successo esaltante e due nette sconfitte. L’unica affermazione di Luna Rossa nella Louis Vuitton Cup arrivò proprio nel 2000, alla prima apparizione in Coppa America, con una storica vittoria in rimonta che incollò davanti al televisore milioni di italiani nonostante il fuso orario neozelandese. La trentesima edizione del trofeo sportivo più antico al mondo andò infatti in scena proprio nel golfo di Hauraki, stessa sede della attuale America’s Cup.
La barca italiana, soprannominata Silver Bullet, raggiunse la finale dopo aver vinto 33 delle 39 regate disputate tra Round Robin e semifinali. L’ultimo atto, al meglio dei 9 match, vide Francesco De Angelis (skipper) e compagni portarsi avanti sul 3-1 prima di subire una striscia di tre punti consecutivi da parte degli statunitensi di AmericaOne. Spalle al muro, in svantaggio per 3-4, Luna Rossa non sbagliò più nulla, pareggiando i conti nell’ottava regata e poi aggiudicandosi il punto decisivo al termine di una regata vinta con 49″ di margine il 6 febbraio 2000.
Sette anni più tardi, a inizio giugno del 2007, si ripresentò in finale di Louis Vuitton Cup a Valencia con al timone il giovane australiano James Spithill (atteso protagonista oggigiorno della sfida a Ineos, sempre nel ruolo di timoniere). Purtroppo però Team New Zealand mise in mostra una superiorità abbastanza schiacciante, anche grazie alle difficoltà di ITA94 in condizioni di vento inferiore ai 12 nodi, aggiudicandosi la serie per 5-0 con un vantaggio minimo di 8″ (nella prima race) e massimo di 1’38” (nella terza). I kiwi si confermarono poi bestia nera di Luna Rossa anche nel 2013, avendo la meglio sul team capitanato dallo skipper Max Sirena per 7-1 nella finale delle Challenger Series di San Francisco, valevoli per la 34ma edizione della Coppa America. In quel caso i distacchi furono ancor più evidenti rispetto al 2007, con un range di gap da 1’27” ai 3’20” dell’ultima e decisiva regata.
Foto: Press Luna Rossa
Cayard: «Belle vele e coraggio, Luna Rossa mi piace»
Paul Cayard, 61 anni meravigliosamente portati, segno zodiacale toro, sportivo di cultura velica rinascimentale, nel senso che spazia dalla Star, la regina delle Classi Olimpiche (un titolo mondiale e un quinto posto ai Giochi di Atene 2004), all’America’s Cup, alla quale si dedica per 30 anni, a due Giri del Mondo a tappe, la famosa Whitbread, poi Volvo Ocean Race, che vince al primo colpo su EF Language nel 96, alla One Ton Cup, che vince nel 1989 come tattico del Brava di Pasquale Landolfi con Francesco De Angelis al timone,all’Admiral’s Cup, che vince sempre con Brava, nel 95 a Cowes nell’isola di Wight,
Senza contare i successi sui Maxi e altri scafi in giro per il mondo. Il ragazzo al quale Raul Gardini affida quando ha solo 29 anni la gestione della sua campagna di Coppa America. Non un gioco, ma all’altezza delle doti manageriali che in lui vede “Raùl”, come ancora oggi pronuncia il suo nome Cayard. “Paolino Cayardo” per i tifosi italiani delle dirette notturne di Telemontecarlo da San Diego, telecronista Paolo Cecinelli insieme a un irrefrenabile, incensurabile Cino Ricci.
Grazie a Zoom entriamo nella sua casa con vista sulla baia di San Francisco, dove da otto anni è tornato a vivere, alla vigilia della Prada Cup, la già Louis Vuitton Cup che al timone di America One 21 anni fa perse per 4 a 5 contro Luna Rossa “Silver Bullett” a conclusione di quella che ancora oggi è considerato il più bel match della storia della Coppa America. Paul vuole parlare italiano “per fare un po’ di esercizio” visto che a causa della Pandemia manca da un po’ dall’Italia. Italiano ineccepibile anche nelle sfumature.
Cosa rappresenta l’Italia nella vita di Paul Cayard?
«Come per tutti la bellezza. Guardi Luna Rossa e lo vedi che è una barca italiana, è “goodlooking”, esteticamente armonica, perfetta, la più bella. In più io ho avuto la fortuna di conoscere e amare l’Italia da dentro. Mia figlia Alessandra è nata nel 90 a Milano, parlo italiano. Per parte di padre ho anche la cittadinanza francese, ma mi sento molto italiano».
In America’s Cup dal 1983 al 2013: i ricordi top?
«Sicuramente la mia prima campagna nel 1983 con Tom Blackaller su Defender a Newport per le selezioni tra defender che allora il New York Yacht Club organizzava per scegliere il più forte. Insieme a Rod Davis e Mike Toppa. Ero il più giovane e non ero pagato. A bordo di giorno, nei locali la sera. Gran life style là. Fu scelto Liberty di Dennis Conner che perse da Australia II. Già nel 1992 tutto era diverso, era diventata una professione. Ginnastica alle 7 e solo una sera libera.
L’esperienza del Moro di Venezia. Per il risultato, la vittoria della Louis Vuitton Cup, Per il rapporto con Raùl. Una persona più grande che ti fa da mentore, ti affida i suoi Maxi a 26 anni, ti porta con sé e ti mette in mano a 29 la sua sfida di Coppa America. Nella mia vita, una grande opportunità di crescita.
Raul Gardini e Paul Cayard
La richiesta di Dennis Conner, il più grande timoniere del mondo, di timonare Stars & Stripes nel 95, quando poi ha vinto New Zealand con Peter Blake e Russell Coutts.
La finale della Louis Vuitton Cup contro Luna Rossa nel 2000: 9 gare combattute con continui colpi di scena».
Quanti vostri spinnaker verdi esplosi in quelle regate ?
«Non ho tenuto il conto, ma 8 è un numero che mi suona».
Terry Hutchinson, skipper di American Magic, era il Suo randista?
«Si. Quell’incidente è stato una combinazione di sfortuna - la raffica che arriva – e di mancata gestione del momento. La vera domanda è se Dean Barker fosse il timoniere giusto. Lui è il più giovane della mia generazione e non è un grande campione, come lo è invece Goodison, il randista, che ha vinto 3 mondiali. Come americano, sono però orgoglioso di come Terry si è comportato dopo l’incidente?».
Ogni regata è costata loro $10 milioni: torneranno?
«La vedo difficile dopo aver gettato $150 milioni dalla finestra».
Che fine hanno fatto i baffi, gli italiani c’erano affezionati?
«Li ho tagliati nel 2011, su suggerimento della mia fidanzata di allora e mi sono trovato bene, mi piace come sono. Era una cosa da anni 80/90».
La 36^ America’s Cup e gli AC 75: che opinione ?
«Avevo dubbi, temevo barche con differenze di velocità e quindi regate non interessanti. Mi hanno impressionato a dicembre, match competitivi, e dopo sono migliorate ancora. Bene la partenza di bolina e un po’ di match racing. Peccato poche barche e poche regate».
Cosa pensa di Luna Rossa?
«La barca sembra buona, all round, migliorata molto con vento, e avendo una serie lunga davanti, al meglio di 13 prove, potranno esserci condizioni differenti. Hanno belle vele, la randa più grassa. Loro sono bravi. Mi piace il coraggio della scelta di due timonieri che non si spostano da una parte all’altra. Evitare il momento di transizione degli altri è una cosa potente. Gli mancava qualcosa per unire le due visioni di destra e sinistra, e ora col randista che diventa strategist (Pietro Sibello ndr) hanno creato il collegamento. Giles Scott, (il tattico di Ben Ainslie ndr) guarda sempre di qua e di là della randa. Checco e Jimmy il gioco del match racing lo sanno fare bene quanto Ben e Giles e meglio del timoniere di Emirates New Zealand Peter Burling che non ha mai fatto il circuito top di match race. Jimmy dopo le regate di Natale è tornato se stesso come timoniere e Checco è bravissimo. Bravo come umano e come velista, intenso, ma non troppo, il giusto. Mi fa sorridere che tutti italiani, a bordo parlino tutti in inglese per Jimmy, uno solo».
Che idea ha di INEOS Team UK?
«Bravissimi velisti che sanno dare il meglio quando conta. Anche Jimmy ha quella cosa lì. Nella sfida tra loro bisognerà capire la velocità delle rispettive barche. Se è equivalente, sarà lotta tra pari e nessuno può prevedere il risultato».
Ineos Team UK e Emirates Team New Zealand hanno regatato meno di Luna Rossa, quanto pesa?
«Per Luna Rossa aver fatto le semifinali è un vantaggio sia psicologico, perché si sente più forte, sia per lo sviluppo, perché per la macchina che sta dietro alla barca è un bene avere scadenza ravvicinate da rispettare per scelte e miglioramento. New Zealand è una macchina lubrificata dalle tante Coppe e sono master nel simulatore. Se hanno la velocità, non hanno problemi, altrimenti sì perché il loro timoniere Burling è un incredibile talento, ma non sa perché fa le cose, mentre Jimmy e Checco, e Ben e Giles, sono ben testati in questo tipo di gara».
Gli uomini che per Lei hanno contato di più nella vela ?
«Tom Blackaller, mio padre di barca. Mio papà, scenografo all’Opera di San Francisco non andava a vela. Tom, un grande campione, mi ha notato tra i ragazzini del S. Francis Yacht Club che andavano a vela. A 16 anni mi ha fatto fare il prodiere sulla sua Star. A 18 mi ha portato in Coppa America. Gli altri sono tutti italiani. Raul Gardini, mio mentore e di più. Pasquale Landolfi, l’armatore dei Brava, grande amico e tifoso che voleva il bene più per Paul Cayard, che per sé. Paolo Cecinelli, giornalista di LA7, che come giornalista guardava sempre con occhio positivo il Moro e nel 2007 mi ha dato l’opportunità di fare l’opinionista per LA 7 permettendomi di riconnettermi con l’Italia. Leonardo Ferragamo, amico da 20 anni del quale ammiro anche la capacità con cui ha saputo coniugare per gli Swan, l’evoluzione con la conservazione».
I ricordi più speciali delle Sue avventure veliche?
«Le due volte che ho girato Capo Horn, nel 98 con EF Language e nel 2006 con Pirates of the Carribean. Per il posto, ma soprattutto perché arrivando lì, hai vissuto tanto, sei sopravvissuto. La vittoria del Mondiale Star in Argentina nell’88. La vittoria del Mondiale Maxi col Moro e Gardini a San Francisco nell’autunno, sempre dell’88, dove si decise anche di lanciare la sfida per l’America’s Cup».
Cosa fa oggi Paul Cayard, gli piace ancora andare a vela?
«Intanto mi piace sempre correre in Star. Per il resto, avevo programmato sette regate con Ferragamo nel 2020, ma sono saltate per il Covid, Anzi è la prima volta dagli anni 80 che sto un anno senza venire in Europa. Mi piace fare regate. Spero di tornare a Capri e a Porto Cervo. Gli ultimi anni, fino a gennaio, ho fatto, senza compenso, il CEO del S. Francis Yacht Club che tanto mi ha dato e al quale mi sembrava giusto restituire. E’ stata una sfida impegnativa come la Coppa America. Negli ultimi 6 mesi con Mckinsey abbiamo realizzato uno studio per “riparare” la squadra olimpica USA di vela, con l’obiettivo di portarla sul podio ai Giochi di Los Angeles del 2028. La mia nuova sfida».
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Fabrizio Marabini, l’ingegnere varesino che fa volare Luna Rossa
Trent’anni fa era tutto diverso e non per modo di dire. Era diversa l’Italia dove i protagonisti della Prima Repubblica avevano appena vissuto la giostra dei Mondiali di calcio, ignari di quanto sarebbe accaduto da lì a poco. Era diverso il mondo, ancora diviso in due blocchi perché gli effetti della caduta del Muro di Berlino non si erano ancora propagati del tutto. Era diversa anche la vela, visto che la America’s Cup, l’antichissima competizione simbolo di questo sport, si era disputata fino a quel momento sui “vecchi” 12 metri, scafi bellissimi e importanti ma assolutamente classici nella concezione e nell’utilizzo.
Ma le rivoluzioni, in ogni ambito erano alle porte. «E io, che mi ero da poco laureato in ingegneria aereospaziale, con indirizzo fluidodinamico, non sapevo nulla del mondo delle barche a vela. Avevo iniziato a lavorare in Aermacchi quando il relatore esterno della mia tesi mi disse che il “Moro di Venezia” cercava una persona in grado di analizzare i dati, da inserire nel team che avrebbe partecipato alla America’s Cup». A parlare è Fabrizio Marabini, oggi 55enne, nato a Bergamo ma trasferitosi da ragazzo a Varese. Grazie a quella proposta inattesa e, per lui, curiosa, Marabini ha iniziato un cammino che lo ha portato a vivere in diverse località straniere, a partecipare da tecnico a sette Coppe America (compresa quella in corso) e a vincere, con i colori di Team New Zealand, l’edizione del 2017. (Le foto di questo articolo sono gentilmente concesse dal Luna Rossa Prada Pirelli Team)
Fabrizio, come stava cambiando la vela nel momento della sua prima collaborazione con il Moro?
«Rispetto a oggi era tutta un’altra cosa. Non esisteva la simulazione come la conosciamo oggi, c’era solo qualche programma che “ipotizzava” il comportamento delle barche in base a pochi parametri. Tutto il lavoro di progettazione, di sperimentazione e di verifica delle prestazioni veniva svolto in mare. Quando io arrivai nel team ero l’unico addetto all’analisi dei dati: i velisti si allenavano, scendevano dalla barca e si confrontavano con me riportando le loro sensazioni. Il Moro di Venezia però ha dato il via a una nuova era».
In che modo?
«Dall’edizione del 1992 venne cambiata la classe velica delle barche impegnate nella America’s Cup: cominciarono a essere necessari grandi budget e vennero inserite numerose figure professionali all’interno dei team. Per questo scesero in campo i tycoon: Raul Gardini per l’Italia con il Moro o Bill Koch per gli USA con America Cube che vinse la coppa proprio contro di noi».
Dopo quella prima edizione, come è proseguita la sua carriera?
«Innanzitutto collaborando con le sfide italiane. Inizialmente non dovevo essere con la prima Luna Rossa perché l’armatore Patrizio Bertelli cercava figure differenti rispetto al Moro, non voleva creare una copia della barca di Gardini. Però in questo campo gli uomini più esperti erano quelli e così anche io venni ingaggiato da Prada per la America’s Cup del 1995; d’altra parte la vela era diventata la mia attività principale. Quindi nel 2000 e nel 2003 fui ancora con Luna Rossa per la quale oltre all’analisi dei dati iniziai a occuparmi anche della strumentazione di bordo (nel 200o la barca italiana vinse la Louis Vuitton Cup e disputò la finale contro New Zealand ndr); nel 2007 invece volli provare una nuova esperienza e lavorai con un altro sindacato italiano, Mascalzone Latino. Dopo la coppa restai a vivere a Valencia, altro momento importante per la mia storia professionale».
Cosa accadde?
«Venni ingaggiato dal sindacato spagnolo per sviluppare il sistema elettronico di bordo di proprietà del team. Poi però l’edizione successiva fu segnata dalle controversie legali e si disputò solo tra Alinghi e Oracle. La squadra però diede a me e a un mio collaboratore, Roberto Berrozpe, la possibilità di continuare a lavorare a quel progetto. Fondammo una società, la Fa.Ro. che diede vita a un sistema di bordo per le barche di America’s Cup: Luna Rossa per la quale sono tornato a lavorare lo adotta tutt’ora».
Prima di tornare con Prada però, lei ha vinto con New Zealand.
«Sì, sono campione in carica! Prada non ha partecipato alla scorsa edizione e allora un gruppo di italiani ha collaborato con i neozelandesi. Avevamo un “incoraggiamento” non vincolante a tornare con Luna Rossa se nel 2021 Bertelli avesse rilanciato la sfida, quindi per questa edizione sono tornato a battere bandiera tricolore».
Quel è il suo ruolo oggi, con Luna Rossa?
«Innanzitutto a bordo di Luna Rossa è installato il sistema creato da Fa.Ro., quindi la messa a punto passa da me e dal mio socio Roberto. Inoltre sulla barca ci sono circa 500 sensori: io mi occupo della gestione della parte “tradizionale”, ovvero della calibrazione del vento, ma anche della progettazione e gestione delle fibre ottiche di bordo».
Pur facendo parte del team, lei lavora da casa. Come si svolge la sua attività?
«Esatto, per scelta familiare abbiamo deciso di non andare in Nuova Zelanda come invece era accaduto nelle edizioni precedenti. Mi aiuta la tecnologia: guardo le regate che si disputano nella notte italiana e ricevo i dati che scarico e analizzo quotidianamente. Valuto quello che si può correggere a livello di strumentazione di bordo e invio il report con le mie considerazioni».
In finale di Prada Cup (il torneo degli sfidanti), Luna Rossa affronterà gli inglesi di Ineos Team UK. I britannici non hanno mai perso, anche se nelle regate di preparazione dei mesi scorsi sembravano i più lenti. Cosa è accaduto?
«Queste barche sono in continua evoluzione e anche piccole modifiche possono cambiare completamente il comportamento dello scafo in gara. Ineos aveva qualche problema strutturale, inizialmente, e aveva navigato meno degli altri team per cui nelle regate preparatorie era ancora in rodaggio. Però le potenzialità si erano intuite anche perché a bordo ci sono dei grandi velisti. Inoltre loro utilizzano solo sei uomini come grinder contro gli 8 di Luna Rossa e di America Magic: questo consente agli inglesi di avere due persone in più fisse concentrate sul campo di regata. Luna Rossa si sta adeguando, coinvolgendo maggiormente il randista Pietro Sibello, che tra l’altro è un grande di questo sport».
Secondo lei la barca italiana ha ancora margine per recuperare sugli inglesi e provare a vincere la Prada Cup?
«Direi di sì, la finale non parte già decisa. Già nelle semifinali contro gli USA si è vista una Luna Rossa dalle prestazioni in miglioramento anche se i gravi problemi del team America Magic che erano seguiti alla scuffia (il ribaltamento della barca che ha rischiato di affondare ndr) hanno condizionato le regate. Però, specie con vento forte, la nostra imbarcazione era apparsa in crescita così come nella gestione della gara: bisognerà vedere se anche Ineos avrà questi margini e come sfrutterà eventuali modifiche. Ci troviamo in una situazione simile alla Formula Uno: è decisivo trovare il giusto compromesso tra la velocità e la manovrabilità degli scafi: gli USA hanno cercato di andare più forte ma hanno avuto problemi in manovra; Luna Rossa è stata più conservativa nella prima fase, ma ha guadagnato una grande manovrabilità che è molto utile durante una fase decisiva come la partenza».
Resta la sorpresa nel vedere queste barche incredibili, capaci di viaggiare sopra al pelo dell’acqua. Ci spieghi, dall’alto della sua grande esperienza, come si è arrivati qui.
«Team New Zealand è sempre molto bravo a trovare le zone grigie del regolamento. Fino alla scorsa edizione si usava la classe AC72, i catamarani che non erano studiati per il foiling. A introdurlo sono stati i neozelandesi che hanno pensato a questo sistema per far volare la barca, ridurre in maniera enorme la resistenza dell’acqua e quindi aumentare di molto i nodi, quindi la velocità. Rispetto al passato ci sono molta più elettronica e idraulica sulle barche, tanto che si parla ormai di meccatronica per indicare l’insieme di queste discipline. Naturalmente tutto diventa più complesso, costoso e causa tempi di progettazione e messa a punto più lunghi. Il contrario delle regate che, invece, ora sono velocissime».